Premessa: non c'è stato un singolo giorno dei quindici passati negli States nel quale non abbia dovuto combattere con me stesso per ricacciare dentro lacrime di pura emozione osservando quei luoghi e ascoltando i pensieri che suscitano. Voglio cercare di farvi entrare nel mio umore di quei momenti, e per questo vi consiglio fortemente di riprodurre questa playlist mentre leggete il pezzo.
Come sapete il mio 2019 è partito col botto, sin dal terzo giorno: la partenza per l'agognato viaggio attraverso gli Stati Uniti. Da tempo li vedevo soltanto attraverso lo schermo, grazie a foto fatte da altre persone. Nonostante ciò, non voglio fare una cronaca giorno per giorno, né commentare un album fotografico, perché non riuscirei a trovare le parole adatte per descrivere quest'esperienza neanche se cercassi per cent'anni. Quindi mi limiterò a condividere i miei pensieri nati durante gli infiniti viaggi in auto, oppure seduto sul bordo di un burrone, oppure disteso sul letto dell'ennesimo albergo.
Il giorno prima della partenza non volevo neanche alzarmi dal letto: la notte di Capodanno era stata pesante per me, sia dal punto fisico che emotivo, probabilmente più il secondo. Non avevo voglia di scorrere infinite volte la lista di cose da mettere in valigia, non avevo voglia di vedere certe persone, non avevo voglia di svegliarmi prima dell'alba per partire. Ma soprattutto non avevo voglia di passare due settimane di scomodità e compromessi con altri cinquanta coinquilini: negli ultimi anni il mio spirito di adattamento e avventura, già debole che era, si è sopito del tutto, e il suo posto è stato occupato dal malumore e dal cinismo con cui spesso mi proteggo. Fin dalle prime ore dell'anno nuovo avevo preso bastonate sulle gengive, sostanzialmente perché sono un testa di minchia, perché in testa ho un multisala e ho una visione distorta del mondo, ma di questo vi parlerò in un'altra puntata. In ogni caso, la voglia di alzarmi dal letto e trascinare la valigia fino al check-in era inesistente, ma vabbè, ormai pagato era pagato, tanto valeva partire.
L'eccitazione era nell'aria, tutti erano esaltati e carichi per un'esperienza che aspettavano da una vita, felici come bambini di farsi dodici ore di viaggio. Tutti, a parte me, con un muro di nichilismo attorno, che rispondevo a monosillabi, agognando il momento in cui avrei indossato le cuffie in aereo per isolarmi da tutti. E fu così che andò: giravo col mio libro in mano, leggevo, oppure facevo finta, quel che bastava per evitare qualsiasi contatto umano. Quando mi accomodai al mio posto in aereo, in mezzo agli sconosciuti, fu solo lì che i miei nervi cominciarono a distendersi.
Dopo il quarto film e il decimo carrello delle hostess a colpirmi il ginocchio alzai la testa e mi sporsi per guardare al di fuori dell'oblò: avevamo già passato l'oceano ed eravamo da qualche parte sopra l'America, ad est di Denver, la nostra destinazione. Sotto di noi c'era il nulla più assoluto, soltanto i peculiari campi circolari, ormai al termine del loro ciclo, che si ripetevano all'infinito, in un'enorme distesa a pois fino all'orizzonte. Incuriosito mi alzai e corsi dall'altro lato, per quanto si potesse correre all'interno di un Boeing 787, calpestando piedi e calciando stinchi. Mi lanciai con prepotenza sul finestrino dall'altro lato dell'aereo e guardai all'esterno: il paesaggio era la copia sputata di quello precedente. Un brivido mi scese per la schiena: per la prima volta mi resi conto di cosa volesse dire grande.
Il concetto mi entrò bene nel cervello nei primi giorni: in America qualsiasi cosa è sproporzionata e senza senso: le strade, i ristoranti, le auto, le colazioni, perfino le bottiglie d'acqua hanno misure al limite della praticità umana. Compreso questo semplice ma fondamentale concetto è quasi scontato capire perché gli Stati Uniti d'America siano una delle più potenti nazioni al mondo: hanno più spazio di quanto ogni singolo popolo possa mai sfruttare, terreni che vanno da spiagge sabbiose a montagne innevate, foreste di un verde da far male agli occhi e campi sconfinati. Ma la cosa che fissò il concetto per sempre all'interno della mia testa furono i seicento chilometri di strada che percorremmo il primo giorno, durante il quale passammo per ben due centri abitati. Era tutto più grande, più pericoloso, più americano. Ma questo ancora non era abbastanza, lo stupore non era sufficiente, dovetti arrivare al primo canyon per capire cos'è veramente quel posto.
Non è difficile stupirsi del perché la religione dei Nativi Americani sia basata su un legame spirituale con la natura circostante quando sei in piedi sul ciglio di un canyon, con il nulla sotto di te. Il timore reverenziale che incutono quei luoghi va ben oltre la paura della rabbia di un'entità superiore, per la quale è chiesto un atto di fede. Mentre queste sono mere minacce, alla natura basta poco per ucciderti: un temporale improvviso, un morso di una vipera, il masso proprio sotto di te che cede. Ed è lì, letteralmente ad un passo da un triste destino, che a volte vorresti abbracciare, arrenderti al mondo e perdere, che alcune domande diventano trasparenti: qual è il mio fine ultimo? Cosa voglio diventare da grande? Quanto sono disposto a sacrificare?
Ma al di sopra di tutte c'è una domanda che mi sono posto molte molte molte volte: in questo momento sono felice? Sembra una domanda del cazzo, però nello stato di meltdown mentale in cui mi trovavo in certi momenti, sul bordo di un burrone, in mezzo alla neve nel fondo di un canyon, seduto ad una slot a Vegas, oppure in mezzo al sale essiccato di un antico lago, diventa una domanda alla quale ci vuole qualche minuto per rispondere, perché occorre raccogliere le proprie esperienze, quello che si è subito e imparato, quello che ha fatto male e quello che ha fatto bene, chiudere tutto in un guscio di franchezza, shakerare forte e aprire. E la risposta per me era sempre quella: nonostante tutto quello che avevo passato e nonostante tutto quello che passerò, sì.
Ed è proprio questa l'essenza del viaggio, oltre al vedere dei posti incredibili, così grandi da non credere ai propri occhi: è un'esperienza che ti fa scavare dentro di te con prepotenza, ti fa capire cose che non puoi capire tutti giorni, nel solito tragitto, nel solito lavoro, nella solita casa. La cosa divertente è che il viaggio è pubblicizzato usando la frase "Per trovare la propria strada, bisogna prima perdersi", che io, ormai immune alla fuffa da anni, avevo buttato lì come frase fatta. E invece no, avevano ragione loro, cazzo se avevano ragione. Perché poi la consapevolezza arriva in qualche momento durante il viaggio, ti rendi conto che ti sei perso, e ti arriva come una spranga sugli stinchi, ti lascia inginocchiato a terra senza fiato, però prima di colpirti di nuovo ti lascia il tempo di raccogliere i pensieri, le idee, le speranze e le frustrazioni, ti lascia tutto il tempo necessario per alzarti e contrattaccare. Che in questa vita vinciamo noi, non gli altri.
E quindi sono qui, occhi lucidi e groppo alla gola, scrivendo dei tumulti che stanno spazzando il mio animo, aspettando che finisca l'ennesimo render. Devo ringraziare tutti coloro che hanno preso parte a questa esperienza, gli organizzatori col loro lavoro integerrimo, i miei amici e genitori da casa, mia sorella e i miei compagni di corso e di viaggio, soprattutto le persone che non volevo vedere, perché grazie a loro questo viaggio è stato qualcosa di indimenticabile.
Spesso dico che la vita è come la scala del pollaio, ma a volte anche il pollaio può essere un posto bellissimo.