I cookies sono quelle brutte cose che tanto hanno portato dolore a noi sviluppatori; servono principalmente per capire chi sei, cosa fai, e come vendere i tuoi dati, in ogni caso niente di grave. Chiudendo questo banner o continuando la navigazione sul sito acconsenti all'utilizzo dei cookies e la tua privacy sarà per sempre compromessa, ma tanto lo è già, quindi tanto vale. Leggi tuttoChiudi

Indipendenti è bello!

Classifichina personale dei miei titoli indie preferiti

Da sempre sono un avido giocatore: sin da ragazzino (si parla ormai di quindici anni fa) ho pigiato senza sosta la tastiera per ore e ore per arrivare a questo o quell’obiettivo. Il primo mio supporto digitale fu un vecchio Pentium, non aveva neanche il sistema operativo: mi ero memorizzato i comandi per lanciare i vari giochi. Avevo un buon plico di floppy, sia i classici da 3.5 pollici, sia i loro genitori da 5 e un quarto. La Playstation 1 uscì nel 1994, ma non ebbi la fortuna di possederne una, quindi mi adattavo con il povero computer che c’era a casa.

Poi lei arrivò: era ormai già fuori produzione, ma riuscii lo stesso a comprare due giochi (pagati a peso d’oro ovviamente): Spyro e Final Fantasy VIII. Il primo lo completai impiegandoci troppo tempo; per quanto riguarda il secondo, invece, non ero abbastanza adulto per comprenderne le meccaniche. Decisi quindi di cambiare e passare al lato Microsoft: vendetti la cara console grigia e i giochi (a parte Final Fantasy, che conservo ancora gelosamente) e presi lo scatolotto nero che era l’Xbox, quella originale. La casa di Redmond aggiunse spessore alla mia conoscenza videoludica con la saga di Halo, il rimpianto Jade Empire e la serie Forza Motorsport.

Il tempo passò, e l’Xbox si fece vecchia: ormai la settima generazione di dispositivi era alle porte. Era il periodo in cui iniziai a programmare, quindi spostai tutto il mio interesse sui PC. Manco a dirlo, non comprai quasi nessun gioco: mi diedi alla pirateria più sfrenata, o meglio, la pirateria che la mia connessione permetteva, perché i giochi si facevano sempre più pesanti.

Arrivò poi l’avvento di Steam: una piattaforma gigantesca, centinaia e centinaia di titoli, bastava strisciare la carta e il gioco era tuo, non c’era neanche bisogno della copia fisica. Il problema era che comunque un gioco costava sui 60€. C’erano delle alternative, però: Valve creò Steam Greenlight, un programma di pubblicazione di giochi indipendenti votati dalla comunità a prezzi nettamente inferiori di quelli detti AAA, ossia delle grandi produzioni.

Internet esplose: chiunque poteva creare un gioco e pubblicarlo su Steam, tra i quali io. Bazzicai quindi per lungo tempo su IndieVault, un forum italiano dedicato allo sviluppo di indie games, nel quale conobbi gente veramente tosta.

Ma cos’è un gioco indie? Un gioco indie è un gioco prodotto da un numero ristretto di persone, a volte anche solo una. È detto indipendente perché questi piccoli studi sono svincolati dai grandi produttori, quindi hanno in mano tutta la libertà artistica del caso. Di contro, non dispongono del loro supporto economico, quindi devono lavorare anche in modo intelligente.

Questo fenomeno tira avanti da una decina d’anni, anche se la sua origine è molto più antica: sin dagli anni ‘70, quando uscì BASIC per i sistemi dell’epoca, vennero prodotti centinaia e centinaia di giochi diversi, che però restarono dentro un floppy, negli scaffali dei pochi smanettoni del settore. Fu Internet a cambiare le cose : aggregò a distanza persone, creò community, stabilì piattaforme e standard. Rese il terreno fertile per una nuova generazione di giocatori.

Perché mi piace così tanto l’indie? Senza il publisher che si impone sull’arte degli studi (basti pensare ai fatti tra Konami e Hideo Kojima), i creatori possono sperimentare nuove idee e “giocare” con concetti nuovi al grande pubblico. Con il tempo, grazie anche alla diffusione di motori grafici come Unity e Unreal, sono nate delle perle che oggi vengono prese come riferimento dalle case AAA, a distanza di anni.

Nel tempo ho collezionato parecchi giochi indie. Il numero di giochi sul mio account Steam è imbarazzante, però tra questi ce n’è un gruppetto che mi ha lasciato qualcosa, a livello di racconto, a livello di arte o a livello tecnico. Queste sono le mie scelte personali, in ordine sparso: sarebbe impossibile creare una vera classifica comparando giochi così diversi.

Dead Cells

L’indie su cui ho speso più tempo. Eccetto un altro, ma vi rivelerò quale nel finale. Non è così innovativo, è un classicissimo roguelike platform: la mappa, i nemici, le armi e le varie abilità variano ad ogni partita. Ogni volta che si muore (una partita dura circa 30 minuti) si ricomincia da zero, accumulando dei punti per acquistare dei potenziamenti permanenti. Ci sono centinaia di giochi simili: The Binding of Isaac, Rogue Legacy, Slay the Spire.

E allora perché ci ho speso così tanto tempo? Perché è bello. È genuinamente bello da vedere, non c’è modo di spiegarlo in altri modi. Pur adottando la tecnica pixel art, la qualità degli sfondi, del design delle creature, le animazioni, gli effetti sono zuccherini per gli occhi. Tra l’altro il gioco è in 2D, però il personaggio, le animazioni delle armi e i nemici sono tutti stati sviluppati in 3D e renderizzati a bassissima risoluzione. Grazie al 3D riescono a rendere gli effetti di luce in modo di far vedere la tridimensionalità dei disegni, anche se non è esistente (spiegazione tecnica: renderizzano anche le normali del modello che vanno a variare il livello di luce tramite uno shader su Unity).

I controlli sono studiati per essere veloci: si può cancellare o cambiare direzione di un attacco in qualsiasi momento, ci sono pochissimi frame in cui il giocatore non ha il controllo. Il risultato di questo studio è che con letteralmente due tasti e una levetta il giocatore riesce a produrre combattimenti fluidi e molto diversi fra loro.

Piccola curiosità: Motion Twin, lo studio che ha sviluppato Dead Cells, ha una gerarchia orizzontale: non ci sono né capi, né responsabili: tutti quanti sono sullo stesso livello. Inoltre i membri hanno stabilito che non assumeranno più nessuno, perché dieci persone possono fare quello che vogliono.

RimWorld

Qualcuno di voi che ha dimestichezza del mondo videoludico conoscerà Dwarf Fortress: questo titolo è famigerato per essere complicato da giocare (è basato sul terminale, nessuna interfaccia grafica) e, oltre a questo, il gioco di per sé è difficile. I creatori, quando nel 2002 avevano iniziato a lavorarci, si erano prefissati un obiettivo: questo gioco avrebbe simulato qualsiasi situazione che può capitare nel mondo reale. Hanno rilasciato un’intervista nel 2018, dopo più di 15 anni di sviluppo, dove annunciavano felici che erano riusciti a simulare il 2% delle probabilità. E già può succedere di tutto: il tuo gatto può morire a causa di un’intossicazione da alcool che ha contratto leccando il vino che hai versato urtando il bicchiere sopra il tavolo. Una catena di eventi fuori di testa.

RimWorld parte con lo stesso concetto, ma fortunatamente ad un certo punto si ferma. Non ti ritrovi a costruire una fortezza nanica, ma devi gestire un gruppetto di sopravvissuti ad un incidente spaziale, perduti su un pianeta sconosciuto, nel quale devono fare i conti con il clima, la fauna locale, le altre tribù e anche i propri caratteri.

È quel gioco che ti tiene incollato per ore e ore, perché appena finisci un pezzo della tua nuova base, sei già lì a pianificare lo step successivo, a gestire questo o quell’evento, oppure a recuperare i danni di un raid nemico, di un incendio, di un meteorite. Possono accadere un’infinità di cose: alle redini della storia c’è un’AI che puoi impostare prima di creare la tua colonia. Con certe AI la difficoltà incrementa con il tempo, altre invece sono totalmente randomiche.

Si può classificare come un ibrido tra Cities: Skyline, The Sims e Age of Empires, una via di mezzo con un twist post-apocalittico. Se vi piace uno di questi tre generi, vale la pena provarlo. E non sorprendetevi se la vostra colonia viene distrutta da un branco di castori assassini: può succedere pure questo.

Celeste

Prendete lo stile di gioco di Super Meat Boy e sposatelo con i colori saturati di Animal Crossing: otterrete Celeste, un platform di precisione divertente da giocare e da vivere. La storia che sta dietro ai demoniaci livelli è inusuale: Madeline, la protagonista, si mette in testa di scalare Celeste, un monte nel Canada occidentale, per sconfiggere la propria ansia e le proprie paure.

Il percorso che la porterà in cima verrà accompagnato da simpatiche spalle come Theo, indigeni della montagna che la sbeffeggiano come la nonna (ufficialmente Old Woman) e altre creaturine simpatiche. Dovrà letteralmente fuggire dalla sua ansia, combatterla e infine imparare a conviverci.

La storia dà la sensazione di essere un po’ cucita attorno al gioco, visti i suoi prototipi, però resta di grande impatto, grazie anche al DLC gratuito che non voglio spoilerarvi, perché merita molto.

A parte la storia in sé, è un gioco in cui si muore molto: i livelli sono composti da varie stanze, e all’inizio di ogni stanza c’è il checkpoint da dove si riparte. Per completarlo la prima volta sono morto più di 3.500 volte. Il bello è che tutte queste morti non sono per nulla punitive: il respawn è praticamente istantaneo e non rompe il ritmo del gioco; in più non applica nessun malus, permettendo di esplorare le varie stanze con tutta la calma del mondo, perché molte di queste sono organizzate come un puzzle da risolvere.

La curva di apprendimento è piuttosto ripida: ad ogni nuovo mondo viene aggiunta una meccanica aggiuntiva, e i salti si fanno sempre più precisi. A volte mi fermavo perché quella determinata stanza stava fottendo la mia coordinazione. Non è comunque impossibile da finire, anzi i livelli “normali” con un po’ di impegno si completano in pochi tentativi. Poi, se vuoi farti del male, ci sono anche i collezionabili da raccogliere, i Side-B e i Side-C, livelli bonus più complicati, pure un intero mondo dopo la fine del gioco, decisamente tosto.

Come nel caso di Dead Cells i controlli, per quanto semplici, sono studiati sia per casual player, ma anche per il mondo dei speedrunner. Per esempio: quando ti sporgi da un bordo e cominci a cadere ci sono un paio di frame in cui puoi ancora saltare sul nulla. Questa piccola feature rende il feel molto più accessibile, convincendoti di aver saltato precisamente sul bordo della piattaforma. Analogamente esistono tecniche (spiegate alla fine del gioco tra l’altro) create appositamente per gli speedrunner: eseguendo un dash in diagonale verso il basso mentre si è a terra e saltando dopo un certo numero di frame, Madeline balzerà in avanti molto velocemente, conservando comunque un dash per un secondo momento.

Il prototipo di questo titolo è stato creato da Noel Berry e Matt Thorson in quattro giorni durante una game jam, sviluppato interamente su Pico-8, una console di fantasia ispirata alle vecchie macchine Nintendo a 8-bit. Già al tempo contava 30 livelli per arrivare in cima a Celeste, è stato arricchito poi per la release ufficiale da una grafica avanzata, un’ottima storia e una colonna sonora di tutto rispetto.

Rochard

Sconosciuto ai più, con questo titolo ho un legame particolare: è stato il primo indie che ho acquistato su Steam. Sviluppato dallo scomparso studio finlandese Recoil Games, è un platform in 2D, anche se sviluppato in 3D. Gioca tanto sulla fisica: per completare i vari livelli bisogna interagire con gli oggetti tramite un’arma simile alla gravity gun di Half Life, spostando e lanciando in giro cose. Ad un certo punto del gioco si ha pure la possibilità di abbassare la forza di gravità o invertirla.

La storia è piuttosto semplice: sei un operaio di un impianto di estrazione su un asteroide perduto nello spazio. La vita prosegue tranquilla, ma il ritrovamento di antichi artefatti cambia le carte in tavola: il capo, intuito il potere degli artefatti, cerca di fare secchi te e la tua spalla tramite un esercito di soldati arrivati per rubare gli antichi reperti.

Insomma, è un titolo di tutto rispetto, hanno rilasciato pure un DLC gratuito di livelli molto difficili, è divertente da giocare e rigiocare grazie anche ai collezionabili sparsi per le mappe. Pure i vari personaggi sono scanzonati e divertenti, è un peccato che non abbia preso tanto piede.

FEZ

Anche questo è stato uno dei primi giochi che sono comparsi nella mia libreria di Steam. Il concetto è la cosa che mi ha attirato di più: il protagonista Gomez riceve in dono un fez che permette di ruotare il mondo, scoprendo che è in tre dimensioni. Il concetto di poter vedere soltanto una faccia di quattro esistenti del livello lo rende un buon platform (i controlli non sono esattamente i miei preferiti) e un ottimo puzzle game.

Inoltre FEZ è stato sviluppato interamente in XNA, il compianto framework di Microsoft per lo sviluppo di applicazioni grafiche su PC e Xbox. Ora il progetto è stato chiuso da anni, però in qualche modo vive ancora tramite il progetto MonoGame, un implementazione open-source di XNA, utilizzata anche in vecchissime versioni di Unity. Altri titoli scritti con XNA/MonoGame sono il già citato Celeste, Axiom Verge, Stardew Valley, Terraria e Owlboy.

Riuscii a platinare (NdA: completare tutti gli obiettivi) solo grazie a delle guide: la quantità di collezionabili sparsi per le varie mappe è estremamente vasta. Oltre ai classici cubetti e cubi gialli, ci sono anche gli anti-cubi, dei misteriosi cubi rossi, quattro oggetti speciali, codici segreti da sbloccare e un intero alfabeto da tradurre. Oltre a queste cosette, quando finisci il gioco per la prima volta ti vengono regalati degli occhiali da sole che ti permettono di vedere il mondo in prima persona, così puoi scoprire altri codici sui pavimenti e sui soffitti che prima non potevi vedere. Giusto due cosine.

Ma la cosa più bella è che è un gioco che non ti mette fretta: i vari livello sono isolette in mezzo al mare, o rocce che fluttuano nel cielo. Comunicano un certo senso di solitudine, quella distaccata, che non fa male. Puoi prenderti tutto il tempo che ti occorre, la musica di sottofondo ti culla su morbide note 8-bit.

The Witness

Caramelle per gli occhi. Difficile definire The Witness in modo diverso. Come genere dovrebbe rientrare nei puzzle game, dei puzzle piuttosto semplici con poche regole facili da intuire, ma la contorta mente di Jonathan Blow, già ideatore di Braid, ci ha creato attorno un’intera isola, con biomi e strutture completamente differenti, amalgamate però alla perfezione.

Lo stile artistico non è per nulla realistico: i modelli sono low-poly (bassa definizione per i meno tecnici), i colori opachi e pastellosi. Hanno usato un bloom eccessivo, quasi fastidioso in alcune parti. Ma è tutto così armonioso. Passeggiare in mezzo ai ciliegi in fiore, o tra le rovine di uno strano villaggio, è un’esperienza immersiva. L’immersività è data in parte dall’alone di mistero che permea l’isola, le strane note vocali nascoste, le statue che sembrano così vive, i laser e gli strani obelischi neri sparsi per il paesaggio.

L’altra parte di immersività è data dal sound design: in contrasto con lo stile minimalista della parte visuale, il compartimento audio è di tutto rispetto. Ogni terreno ha il proprio suono dei passi e il proprio sottofondo ambientale, l’intensità del vento cambia in base alla posizione nell’isola, il riverbero dentro i luoghi chiusi è impostato alla perfezione. L’assenza di musica di sottofondo cala un velo di quasi sacro timore in quei luoghi, in una sensazione che gli inglesi chiamano eerie.

L’unico problema è la storia. Non c’ho capito un cazzo. Anzi, dubito che qualcuno l’abbia capita. Nel caso, mandatemi una mail, grazie.

Return of the Obra Dinn

Da designer a designer: Return of the Obra Dinn è l’ultimo lavoro di Lucas Pope, già famoso per l’eccellente Papers, Please. La storia sembra piuttosto semplice: è il 1807, una nave dichiarata perduta da anni ritorna in porto con le vele strappate e nessuno a bordo. Il tuo obiettivo è scoprire cos’è successo.

Il compito è più arduo del previsto: l’ispettore protagonista deve associare i volti di sessanta persone ai vari nomi e determinarne le cause della morte. Fortunatamente a sua disposizione ha un particolare orologio che fa vedere un fermo immagine dell’esatto istante della morte del malcapitato che sta esaminando. Può scorrazzare in quella scena tutto il tempo che gli pare. Per qualche scena vengono forniti anche dei dialoghi, ma senza specificare chi stia parlando, facendo comparire le battute a schermo prima della scena, stile cinema muto.

Quindi il gioco è a metà tra un gioco di investigazione e un puzzle game. In ogni sequenza ci sono particolari che aiutano a determinare chi è chi, e spesso le varie sequenze non sono in ordine temporale, giusto per aggiungere ulteriore confusione.

Ma la cosa più d’impatto di questo titolo è il compartimento grafico: è sviluppato in Unity, però tramite uno shader è stato implementata una grafica ad 1-bit. Risoluzione 800x450, ogni pixel o è bianco o è nero. Per rendere decentemente un mondo tridimensionale con risorse così limitate, il buon Lucas ha passato mesi a studiare metodi di dithering e altri escamotage. Tutto il suo percorso è ben documentato da Lucas stesso in un devblog preziosissimo.

Come in The Witness, la parte audio è curatissima e aiuta l’immersione nelle varie scene, nonostante la stranezza della grafica primitiva. In ogni caso, se volete perdere una quarantina di ore sbattendo la testa su un Cluedo con sessanta personaggi, questo è il gioco giusto. Consigliatissimo.

TIS-100

Ultimo ma non per importanza , TIS-100 è uno dei giochi sviluppati da Zachtronics. Giusto per farvi capire chi sono: uno dei primi titoli che hanno sviluppato (che ha sviluppato il fondatore Zach Barth) è Infiniminer, il gioco che poi ha ispirato Notch per creare Minecraft. La loro forza sono i giochi di programmazione. Nel caso di TIS-100 e Shenzhen I/O si tratta di un linguaggio simile ad ASM, molto semplice da imparare ma difficile da ottimizzare, soprattutto perché il gioco ti fornisce risorse limitate. In altri giochi, come SpaceChem, Infinifactory e Opus Magnum, la parte di programmazione è visuale, ma lo spazio e le istruzioni a disposizione sono poche.

In comune a tutti questi giochi c’è una classifica globale che ti mostra l’efficienza del tuo pezzo di codice rispetto a quello degli altri giocatori. Spesso e volentieri sono più pesanti, più lenti e consumano di più. Il bello è che una volta finito hai l’esperienza per tornare indietro e riscrivere certe soluzioni, tentando di arrivare al risultato ottimale.

Altra cosa figa: con questi titoli viene fornito un documento PDF inteso per la stampa con le varie istruzioni per scrivere codice, specifiche di vari componenti, pure note scritte a mano. Con la versione preorder di Shenzhen I/O ti veniva spedito pure il manuale in forma fisica, già stampato, con una cartellina customizzata e con dentro vari extra che non ci sono nel manuale reperibile online.

Non sono giochi semplici, anzi pur programmando da molto tempo trovo difficoltà a completare certi livelli. Però devo dire che la soddisfazione nel vedere che il tuo programma finalmente sta avendo successo in tutti i test non ha eguali.

Pensato per chi di lavoro fa il programmatore, e nel tempo libero fa il programmatore.

return 0;

Questo è quanto, il risultato di anni di procrastinazione e temporeggiamenti nei miei doveri. Questo è soltanto un estratto dei titoli che ho avuto la possibilità di giocare, tra quelli che non ho approfondito devo per forza citare:

E chissà di quanti altri mi sono dimenticato. Tra quelli che ancora non ho detto ce n’è un altro, credo il gioco indie per eccellenza, in cui c’ho perso più di un paio d’ore. A onor del vero, anche più di un paio di settimane. Sì, mi riferisco a Minecraft, ma servirà un articolo a parte per parlarne.

Nel mentre spero che la corrente indie duri ancora per molto: grazie all’osare di piccoli studi, anche le aziende AAA stanno cercando nuove strade. L’indie è la ventata di novità che serviva al mondo videoludico. E non vedo l’ora di poter fare anch’io la mia parte.

IADRTorna alla Home