Sono circa quattro mesi che non pubblico nulla, niente di nuovo, e a dir la verità gli ultimi pezzi erano piuttosto impersonali, vuoti. C’erano le mie esperienze dentro, c’era qualche pensiero, ma roba da giornaletto da ragazzi, scritture ad ampio spettro, quasi cercassi un nuovo pubblico. Non è per questo che ho aperto questo blog, che negli anni ha visto intervalli tra le pubblicazioni sempre più lunghi e testi sempre più scadenti. Perché ho cominciato a confondere il parlare di ciò che penso con il parlare di come mi sento.
Sono circa quattro mesi che non pubblico nulla perché non ho niente da dire: visto dall’alto la prima metà del 2020 è stata senza eventi, nonostante la quarantena e tutto il resto, che a dirla tutta mi ha toccato marginalmente. Sei mesi dove non è successo niente di così importante da creare delle onde nelle acque ferme della mia quotidianità.
A onor del vero, sono successe cose: un nuovo lavoro che mi sta portando un po’ più vicino all’obiettivo che voglio raggiungere, una nuova casa in un posto che non conosco, pronto per essere esplorato, nuove amicizie. Ma niente di così importante da rompere il flusso costante delle giornate. Perché questo è il periodo dell’attesa: non sto aspettando un evento preciso, un cambiamento che ho scelto mesi fa, un qualcosa che cambierà la mia vita. L’obiettivo di questi mesi è assorbire più informazioni che posso, relazionarmi con nuove persone e sopravvivere a casa. Ma all’orizzonte non si vede terra, nessuna destinazione, soltanto acqua e acqua.
E tutta quest’acqua mi fa paura a volte: non sono sicuro di stare bene, di essere felice. Mi piace quello che faccio a lavoro, mi piace vedermi con i colleghi, anche senza fare nulla, solo per chiacchierare del più e del meno. Ma ho come l’impressione di star nascondendo sotto il tappeto altre parti che voglio ignorare: la situazione sentimentale, i rapporti con gli amici storici, la voglia di scoprire cose nuove che sta venendo a mancare. Ho paura di abituarmici a questa quotidianità, svegliarmi un giorno e scoprire di sentirmi realizzato con quello che ho. Ho paura di fermarmi.
All’improvviso sono passato a voler sacrificare tutto per raggiungere quello che mi sono assegnato come vocazione, a chiedermi chi mi fa fare tutti ‘sti sacrifici, senza trovare una risposta. E non posso tenere il piede in due scarpe, non c’è una via di mezzo: se resti a metà ti trovi a rimpiangere il tempo sprecato a fare sacrifici a metà, sacrifici che non ti hanno portato dove pensavi . E questa cosa a volte non mi fa dormire la notte.
Ma nel frattempo si è aggiunta un’altra cosa: una sensazione nuova per me, nata dopo l’esperienza a BigRock, una cosa che mai avrei pensato di poter subire: mi sento solo. Per me i weekend sono quasi una tortura, a volte capita che non parli con nessuno da venerdì sera al lunedì mattina, tre giorni di silenzio. E ti aspetti che a volte persone che conosci da molto, molto tempo, da più di metà della tua vita, si interessino e ti chiedano come va, ma non accade. E quindi di chi è la colpa? Loro che non si interessano di me? La colpa è comunque mia, che per primo non mi interesso di nessuno e cerco di fare ancora la figura del lupo solitario che non ha bisogno di nessuno se non se stesso.
A volte mi trovo a pregare nella mia testa le persone perché mi chiedano come va, ma non succede spesso che lo facciano. E quando lo fanno, liquido con un neutro “bene, grazie”. Ma non va un cazzo bene. È perché ho paura di aprirmi, di parlare e dirgli che dietro i miei occhiali c’è una tormenta di pensieri di merda, di voglia di parlare , di fare cose, esplorare, provare cose nuove. Che c’è dell’altro dietro al ragazzone grande e grosso con tanta barba appassionato di videogiochi. Perché non capiscono che c’è dell’altro? Ho passato troppo tempo a chiudere tutto ciò con un grosso lucchetto?
E quindi mi ritrovo qui, sulla terrificante soglia dei trent’anni, con pochi amici, gran parte che mi conoscono a metà. E mi sento solo. Vorrei avere qualcuno con cui condividere tutto, non pretendo che sia della mia stessa idea, soltanto che capisca veramente chi sono. Sento che è una ricerca senza speranze, come dovessi trovare il Graal. Quindi ho abbandonato questa strada, lasciando tutto in balia degli eventi, cercando di prendere quello che il fato mi tira addosso. Certe persone entrano ed escono troppo velocemente, senza che possa veramente parlargli. E se fossero queste le persone giuste? Dovrei prendere la situazione per le corna e trovare attivamente una soluzione?
Non capisco, il raziocinio che applico su altri campi è offuscato da banchi di nebbia di seghe mentali, paranoie e complessi che dalle 9 alle 18 non esistono, si ripresentano quando infilo la chiave di casa nella toppa. Ho già scritto altre volte di non voler usare il lavoro come scappatoia, ma mi ci ritrovo dentro fino al collo, un’altra volta. Non che abbia tante altre ancore di salvezza a disposizione, soprattutto a 300km da casa, conoscendo soltanto le persone con cui lavoro. Io ci provo a cambiare, ad affrontare le cose, e ogni volta che tento piglio schiaffi, cinquine che bruciano per mesi e mesi.
Avrò anch’io il diritto di essere felice? Ho intrapreso un percorso durante il quale devo sacrificare rapporti umani in continuazione, tranciare fili delle amicizie per legarne di nuove, ma veramente lo devo fare? Oppure mi sto rendendo la vita difficile da solo? Sono consapevole che non c’è un silver bullet, un pulsante che premi e si risolve tutto. Ma quindi, dopo aver faticato per rendermi miserabile come sono, devo faticare anche per tirarmi fuori da questa palude?
La nobilitazione del sacrificio è un ideale che odio visceralmente, un’idea così antiquata che mi vergogno quando mi accorgo che ci sono dentro fino al collo. Sono nato in Veneto, un posto dove se non lavori sei inutile, un peso per la società, uno da cui stare distante. I miei genitori sono così, la sera bisogna arrivare a casa stanchi, ma non si può riposare, si deve lavorare ancora, altrimenti non andrai da nessuna parte. Non è colpa loro: amo i miei genitori, non sarei qui senza di loro, insostituibili sotto ogni aspetto. La loro generazione è così, una generazione senza gli agi del mondo di oggi, senza Internet e senza una visione completa del mondo, vittime involontarie di una generazione precedente, nata dal secondo conflitto mondiale, dove se non lavoravi facevi la fame, dove il sacrificio era necessario.
Provo a discuterne con loro, che la vita non è soltanto lavoro, che bisogna dare valore all’ozio, che un po’ di procrastinazione non ha mai ucciso nessuno. Purtroppo sono parole al vento, arrabbiature sterili che rovinano serate di risate ed allegria. E probabilmente cerco di convincere loro per convincere me stesso, convincermi che i miei sacrifici non sono stati così pesanti, che sono sacrifici soltanto nella mia mente, che devo smetterla di fregiarmi di queste cose come fossero medaglie al valore.
Sto lavorando su di me, ogni giorno cerco di migliorare, di trovare un equilibrio tra essere me stesso ed essere la maschera che indosso ogni mattina. E sembra anche andare bene a volte, ci sono serate in cui sto genuinamente bene, mi diverto, sono contento di trovarmi in quel posto con altre persone. Altre serate invece cerco di convincermi che tutto ciò è uno strano sogno e che desidero svegliarmi a qualche anno fa, con un lavoro sicuro e soddisfacente, una ragazza al mio fianco, degli amici con cui confidarsi.
È stato quello il giorno in cui ho deciso di prendere la strada di cui sono estremamente soddisfatto, ma che allo stesso tempo maledico per aver sfasciato tutto ciò a cui tenevo. Dopo tre anni, che sembrano trenta, mi ritrovo a metà strada a tirare le somme di quello che è successo e non è successo, e pensandoci la somma è zero. Ci sono stati momenti memorabili e periodi di disperazione, di gioia e di dolore, di felicità e di rabbia. Se potessi scegliere, rifarei la stessa cosa? Probabilmente sì: pur essendo uno zero, mi fido di me stesso.
Quindi vorrei chiudere qui un articolo senza capo né coda, un’accozzaglia di pensieri sparsi, di voglia di mettere in digitale un po’ di seghe mentali. Vedetelo come un aggiornamento su di me, vedetelo come una richiesta di aiuto, sta ai posteri valutare le parole. Forse sono la “bestia che gridò amore nel cuore del mondo”, forse sono solo un egocentrico Shinji in cerca di attenzioni. Forse sono depresso, incompreso, oppure soltanto paranoico. Forse sono solo io.