Il ragazzo se ne stava appollaiato lì, adornato da ninnoli d'oro e gemme e circondato da un banchetto luculliano, mentre decine di metri più in basso una folla oceanica, emaciata e coperta di stracci, lo fissava con giubilo e venerazione prossima al misticismo, danzando frenetica al ritmo di centinaia di tamburi.
Sopra di lui il cielo era coperto e prossimo ad una grossa tempesta. Ma non sarebbe stata una tempesta qualunque: sarebbe stata l'ultima, come narravano le antiche profezie. Un'altra volta ancora gli antichi demoni avrebbero scelto il migliore dei loro guerrieri infernali e l'avrebbero inviato ad affrontare l'impavido guerriero umano in una lotta all'ultimo sangue, con in palio il destino del mondo intero: se avesse vinto l'umano la civiltà sarebbe continuata, in una infinita lotta tra i due universi, se avesse vinto il guerriero demone, il Creatore, l'entità imparziale padre di tutti gli universi, avrebbe finalmente aperto la porta del mondo umano, scaricando valanghe di demoni, latori di morte e disperazione. Ma la seconda opzione non si sarebbe mai verificata, lo dicevano le Antiche Pergamene.
Vedendo la tempesta arrivare, sul viso paffuto dell'impavido guerriero, vestito soltanto di un leggero perizoma, comparve un piglio di preoccupazione e di ansia. Non aveva mai ricevuto nessun tipo di addestramento alla guerra, anzi nessun insegnamento in generale: aveva vissuto la sua vita rinchiuso nella sua stanza, circondato da ancelle che soddisfavano ogni suo bisogno, a parte la possibilità di parlare o comunicare in qualsiasi modo. Nonostante queste grosse limitazioni non sapeva di essere in gabbia, poiché quella era l'unica vita che conosceva. Gli alti sacerdoti sostenevano che la privazione degli stimoli esterni era necessaria per assorbire nel miglior modo possibile gli insegnamenti che gli avrebbero impartito gli dei degli uomini quel giorno, sotto forma di fulmine splendente, il terzo di una serie di tre, lo dicevano le Antiche Pergamene.
Non si rendeva conto che tutte quelle persone erano lì per lui. Sapeva soltanto che avrebbe dovuto affrontare una prova divina, e che dalla sua prestazione sarebbe dipeso il destino del mondo. Però, lì in fondo alla base dell'alta piramide a gradoni, c'erano decine di migliaia di persone ad acclamarlo, pur non conoscendolo affatto. E anche lui, pur avendo vissuto per vent'anni chiuso tra le stesse quattro mura, si rendeva conto che erano persone che giornalmente camminavano sul baratro della disperazione, tra la morte per inedia o per fatica, costrette a sfiancarsi di lavoro per poter nutrire loro e i propri cari.
Girandosi attorno per osservare la folla fino all'orizzonte notò quasi subito un gruppo di persone più alte degli altri, probabilmente posizionate sopra un palco rialzato, sedute in sedie d'oro dall'alto schienale, vestite di lunghi abiti oro e rossi, che se ne stavano appollaiate lì, senza proferire una parola e senza battere ciglio, nonostante il ritmo incalzante dei timpani proprio sotto ai loro piedi. Erano forse schiavi? Prigionieri? Che crudeltà era privarli dell'euforia contagiosa che dilagava tra la folla?
La confusione di quell'ammasso di esperienze nuove tutte d'un tratto gli annebbiava la mente e non gli consentiva di formulare un ragionamento coerente: cominciava per una strada, la percorreva in parte, poi prepotentemente un altro pensiero si buttava in mezzo a spallate, accavallandosi e combattendo nella mente vergine ed intonsa dell'impavido guerriero. Ma tutti i suoi dubbi sarebbero stati presto chiariti: al terzo lampo sarebbe stato chiamato in udienza dagli dei, che lo avrebbero onorato e riverito come un loro pari, impartendogli la loro conoscenza ancestrale, preparandolo ad affrontare il pericolo più grande che l'uomo avesse mai visto.
Ma avrebbe causato dolore? Lui di dolore ne sapeva molto poco. A volte si faceva male giocando, inciampava o picchiava la testa contro qualche spigolo, e quella era la sua misura di dolore. Ma come avrebbero combattuto? A mani nude? Che aspetto avrebbe avuto il guerriero demone? Lì non c'era spazio per battersi, la cima della piramide aveva posto appena per lui e i suoi doni, mentre la piazza era gremita di persone, dove avrebbero combattuto? L'ultima cosa che sapeva era che presto sarebbe stato tutto chiaro, come dicevano le Antiche Pergamene.
Il cielo ormai livido si squarciò con un lampo, e il campione fu sbalzato fuori dal limbo dei suoi pensieri per essere riportato di nuovo in mezzo alla gente: stava per cominciare. Un boato di acclamazione risuonò dalla folla, in trepidante attesa dell'inizio del miglior spettacolo al quale avrebbe potuto mai assistere. Cominciò presto a piovere, ed una goccia cadde giusto sul palmo della sua mano. La osservò da vicino: non era normale acqua, era qualcosa di diverso. Era rossa, ma di un rosso rubino profondo, tanto lucida da potercisi specchiare. La toccò con la lingua e ne saggiò il sapore metallico e caldo. Aveva lo stesso sapore del taglio che si era procurato anni fa sulla gamba. Ben presto la pioggia sottile si trasformò in tempesta, con venti che spazzavano e torrenti rossi ai piedi della folla. Ma quella continuava a danzare, letteralmente come non ci fosse un domani.
Perché continuavano a ballare, con energia rinnovata ogni volta che lui si muoveva? Come potevano essere così sicuri che il sole sarebbe spuntato splendente da dietro le spesse nubi livide che minacciavano l'umanità? Semplicemente si fidavano ciecamente delle Antiche Pergamene, scritte e disegnate dagli antenati in tempi ormai dimenticati. Le Pergamene erano scritte in un linguaggio segreto, conosciuto soltanto al Gran Sacerdote e ai suoi successori, gelosamente tramandato da maestro ad allievo.
E se fosse successo un imprevisto? Se fosse morto senza poter istruire un nuovo lettore? Non esisteva una guida, un compendio per la lettura, la conoscenza era tramandata per via orale. Le Pergamene erano precluse persino ai cittadini, consultabili solo e soltanto dal Gran Sacerdote. Come potevano avere una così cieca fiducia in una sola persona? E se avesse voluto piegare la leggenda per creare la propria realtà?
Esistevano centinaia di documenti scritti e racconti che narravano dell'antica battaglia tra il campione umano e il guerriero demone, ma nessuno di questi riusciva a raccontare precisamente gli avvenimenti, la serie di eventi che si susseguirono il quella giornata, lasciando invece una storia nebulosa, a volte con palesi lacune, come se non fosse mai veramente successa. E se fosse stata tutta un'elaborata invenzione?
Un altro tuono lo fece sobbalzare sul freddo letto in oro sul quale era adagiato, sempre più estraneo a quel luogo e a quel momento. Mentre i tamburi ancora facevano tremare il petto con i possenti colpi, da lontano si sentiva un suono acuto, vibrante, che risvegliava un'ancestrale paura. Lo sentiva tutto intorno a lui, dal fondo della piazza, e pian piano si avvicinava e si faceva più nitido. Strizzò gli occhi per osservare attentamente le persone per capire l'origine del suono, e dopo qualche momento li vide.
Più osservava la scena e più ne comparivano, dai bordi delle strade, dalle profonde crepe delle piastre di pietra: enormi ratti bianchi come la neve, con due occhi posati sul muso aquilino rossi come due rubini, profondi come il mare. Squittendo come impazziti correvano tra le caviglie della gente incurante della loro presenza, affondando le lunghe zanne nei polpacci e strappando larghi brandelli di carne. Ma loro non se ne curavano, con un strattone li staccavano e ricominciavano la loro danza senza riposo, con i sandali sanguinanti ed ignorando il dolore. Perché presto sarebbe arrivato il terzo fulmine, ed il campione umano avrebbe risolto tutto, come dicevano le Antiche Pergamene.
Durante il sanguinoso banchetto il campione osservava paralizzato la scena, in un misto di orrore ed estasi. Conosceva gli animali, ne aveva visti passare qualcuno durante gli anni dell'adolescenza, e appena si avvicinava per afferrarli loro scappavano, come se fossero impauriti. Questi invece non temevano nulla, né i calci né le verghe, e perseveravano nel loro macabro lavoro di spolpare le gambe della folla, in un enorme baccanale che squittiva imperterrito.
All'improvviso provò paura, una paura profonda ed antica che gli attanagliò il cuore. Come un pugno in pieno petto, sbarrò gli occhi e cominciò a fare respiri profondi, per poi esalare fino all'ultima goccia d'aria. La vista si annebbiò mentre percorreva strade fuori da quel mondo, terra bruciata e fumante, come se tutte le informazioni che stava immagazzinando avessero saturato il cervello e cercassero un modo di uscire. Si trovò piccolo come un topolino tra le gambe della gente, impegnato a schivare i piedi che continuavano a farlo sobbalzare. Un secondo dopo era enorme, ed osservava dal cielo tutta la civiltà, da un lato all'altro della piazza, come se fosse estraneo dagli eventi. Però sopra la piramide non c'era lui, c'era soltanto un cumulo di ossa ormai sbiancate dagli anni. Voleva andarsene, scappare da tutto quello e rinchiudersi tra le quattro mura a lui così familiari, così sicure, ma le gambe non rispondevano, pietrificate contro la roccia che circondava tutta la città. Quello era il suo posto, non poteva scappare.
A risvegliarlo fu il terzo tuono, seguito dal boato della folla pronta a godersi uno spettacolo unico, confidente sulle capacità del loro grassoccio guerriero appollaiato in cima alla piramide. Tutto divenne silenzioso, mentre i secondi passavano grevi come colpi di tamburo. La pioggia rossa continuava a cadere e l'unico suono udibile era quello dei ratti intenti nel loro banchetto. Non stava accadendo nulla. Non una nuvola che si muovesse, nessuno spiraglio di luce, nessun dio venuto a prelevare il campione. All'incessante squittio cominciò ad aggiungersi un sommesso brusio, che andò aumentando in volume, finché qualcuno gridò qualche parola sconnessa riguardo la fine del mondo. Scoppiò il panico.
Le persone correvano verso tutte le direzioni, pestandosi fra loro, cercando un riparo pur sapendo che non sarebbero potute scappare al giudizio dei demoni. Alcune abbracciarono i propri cari versando lacrime a profusione per l'imminente dipartita. I più intrepidi provarono ad arrampicarsi sul palco, respinti però dalle guardie. Almeno fino a quando anche loro si resero conto di essere umani prima di essere uomini dei padroni. Trascinarono il Gran Sacerdote in mezzo alla folla, dove scomparve con un guizzo rosso dell'ampia veste. Il resto dei personaggi seduti subirono la stessa sorte, mentre altra gente cominciò ad assaltare anche la piramide.
L'altezza e la ripidezza proibitiva davano un certo vantaggio al campione, che però era circondato e così confuso da non aveva proprio idea circa il da farsi. Sarebbe stato trascinato anche lui tra la folla? Sarebbe stata una cosa gradevole? I modi con i quali avevano strappato il Gran Sacerdote dalla propria seduta non erano sembrati né amichevoli né gentili, quindi dubitava che fossero gente pacifica. Ma cos'altro poteva fare? Non aveva armi, e anche se le avesse avute erano troppi i nemici da affrontare. Se si fosse lanciato avrebbe attutito la caduta addosso agli scalatori, ma la sorte finale non sarebbe cambiata. Aveva veramente vissuto una vita come la sua per morire così?
Rimembrò quello che una volta il Gran Sacerdote, giunto in visita, gli aveva riferito: lui era destinato a vivere per sempre, e grazie alla sua saggezza divina il regno avrebbe prosperato fino alla fine dei tempi. Aveva mentito? Perché avrebbe dovuto mentire proprio a lui? Cosa ne poteva guadagnare? Magari si era sbagliato, forse aveva interpretato male le Pergamene. Non era per caso all'altezza dei suoi predecessori? Se erano arrivati fino a quel giorno era grazie a Gran Sacerdoti e campioni che avevano svolto correttamente il loro lavoro, perché proprio loro due furono loro a sbagliare? Era stata una sua mancanza?
Troppe domande e troppo poco tempo: pochi metri di dislivello separavano il campione dall'agguerrito scalatore, quando un rumore assordante gelò l'immagine come in un dipinto. Era come pietra che strisciava su pietra, e veniva dall'alto. Alzo gli occhi e sopra di lui le nuvole avevano formato un largo vortice di colore arancio fuoco. Una folata di vento bollente investì tutti, facendo raggrinzire i sottili peli delle braccia, e l'aria si saturò di fumo nero ed odore di zolfo.
Dalle volute del denso fumo si riusciva ad intravedere una figura fiocamente illuminata che si avvicinava camminando sul cielo. Quando ruppe la densa cortina il guerriero demone si rivelò in tutta la sua forza: più alto di qualsiasi uomo mai visto, e muscoloso il doppio, portava un'armatura fatta di strisce di cuoio e ampie piastre di ossidiana, corredata da una gorgiera d'oro intarsiata. La pelle nerastra era percorsa da lunghe crepe infuocate, come il magma che si stava raffreddando. Non portava l'elmo, due spesse corna rosse glielo impedivano. La spada a lama larga che teneva in mano era rovente, appena uscita dalla forgia, pronta a squartare qualsiasi cosa sul suo cammino.
Scandagliava lentamente il panorama sottostante, cercando il suo avversario. Lo trovò in cima all'alta piramide e lo inquadrò determinato. Il campione umano, invece, lo fissava dal basso con gli occhi sbarrati e una maschera di terrore dipinta in volto, con le flaccide braccia paffute cadenti lungo i fianchi. Non era più saggio o più forte di qualche ora prima, ma avrebbe prevalso, lo dicevano le Antiche Pergamene.
E ora? E ora non so, per quanto mi piaccia scrivere narrativa non progetto mai un cazzo, e mi trovo con storie che finiscono senza una vera conclusione e senza una morale. Mi chiamo Davide, non Dante o Fedro purtroppo. Nonostante tutto, spero almeno di aver pungolato la fantasia di qualcuno. Ecco, magari suggeritemi il degno finale.