Qualche tempo fa, in un paese più vicino di quanto possiate pensare, viveva un ragazzo, anzi un ragazzone, un ragazzone alto, goffo per le sue dimensioni ed il suo peso, che sfoggiava una vistosa barba ribelle. Il suo nome era Da… nte. Sì, il suo nome era Dante. Dante suona bene.
La sua esistenza trascorreva felice, aveva una famiglia esemplare, degli ottimi amici e una buona serie di colleghi, che in gran parte rientravano nella categoria degli amici. Aveva fatto della sua passione il suo lavoro, e del suo lavoro la sua vita, e le cose non potevano andare meglio: raccoglieva ogni giorno grandi soddisfazioni, che lo spingevano ad alzare sempre l’asticella. Insomma, la sua vita stava andando nella direzione verso la quale aveva sempre spinto, e il futuro non avrebbe potuto essere più roseo.
Nonostante tutto ciò, Dante aveva un problema. Si sentiva addossato un grosso handicap, che non gli permetteva vivere come lui aveva pianificato: le discussioni che portava avanti non andavano mai nella direzione che voleva. Prendevano sempre una piega inaspettata, non necessariamente sbagliata, ma diversa, ed ogni volta rimaneva con troppe parole in bocca da dire, e soprattutto quelle meno indicate.
Di questo fatto si crucciava ogni giorno, e dentro di lui sapeva per certo che se avesse usato quelle determinate parole il discorso avrebbe seguito la pista da lui stabilita, una lunga rotaia dritta filata che l’avrebbe portato al suo obiettivo, una conclusione che non avrebbe avuto nessun appello. E invece non era mai così, capitava sempre qualcosa di inaspettato a rompere l’equilibrio, e interi paragrafi di discorso svanivano magicamente dal suo cervello, vaporizzati dell'inutilità degli stessi.
Così decise di agire e cominciò a scrivere lunghe arringhe su carta, fogli su fogli, organizzati in spessi faldoni ordinatamente catalogati in una stanza, divise per data, interlocutore e perfino per il tema del dialogo, che variava da colloqui di lavoro, richieste di favori ad amici, litigi, dichiarazioni d’amore. Il catalogo vantava uno spettro di filippiche vasto e variegato.
Nonostante il suo sforzo titanico, i fogli pieni d’inchiostro e il cestino traboccante di penne esaurite la situazione non cambiava, non riusciva mai ad arrivare in fondo ad un suo copione, c’era qualcosa che lo portava fuori strada, sempre quel sassolino che faceva deragliare la locomotiva di parole, che sulla carta avrebbe dovuto essere un mostro inarrestabile d’acciaio, ma che diventiva inutilizzabile al primo minimo imprevisto. Non era una situazione piacevole per lui: il percorso di vita che aveva scelto continuava a filare liscio come l’olio, ma ogni singolo dialogo lo portava ad un fallimento, ed ogni fallimento lo faceva cadere in un turbine inarrestabile di pensieri su cosa avrebbe potuto dire e su come avrebbe potuto dirlo, portandolo a continuare sua folle opera di scrittura fine a se stessa.
Un giorno si ruppe qualcosa, prese una bordata più forte delle altre. e quando finì l’inchiostro dell’ultima penna si rese conto che quella era soltanto una corsa forsennata verso il niente, che continuando così non avrebbe trovato nient’altro che delusioni. Decise di andare alla sorgente del problema, scorse i lunghi schedari della stanza dei copioni fino ad arrivare ad una vecchia cartellina, coperta della polvere accumulata negli anni. Passò un dito sull’etichetta sul dorso del faldone per rivelare l’evento a cui era collegato, e il ricordo si fece più vivido nella sua testa. Lo tirò fuori da un cassettino nascosto e ricordò la prima bruciante delusione. Riluttante lo portò fino ad una vecchia scrivania lì vicino e lo aprì. Lo lesse controvoglia, perché ogni frase che cominciava la poteva ricordare senza problemi, come se l’avesse scritta il giorno prima. La lettura filò rapida e senza intoppi, ma solo quando chiuse la copertina in fondo si rese conto di una cosa: in tutto il lunghissimo discorso c’era soltanto un personaggio: se stesso. Ma forse quello era un’eccezione, ed era soltanto una bozza rispetto alle ultime arringhe che aveva prodotto.
Però non era un eccezione. Dopo l’ennesima polverosa cartellina sfogliata, l’unico personaggio rimaneva lui stesso, ed nessun altro. Vagava per le file di scaffali in stato catatonico, non poteva più continuare a scrivere soltanto di se stesso. Non aveva calcolato alcun tipo di reazione diversa alle sue previsioni, e si sentiva come se avesse parlato ad un esercito di bambole. Il peso dell’egoismo di anni passati ricadde improvvisamente sulle sue spalle, lo lasciò senza fiato. Doveva rompere quella ruota di autocelebrazione che l’avrebbe portato soltanto ad altre stangate, pur non intaccando la sua incrollabile convinzione.
Così seppe cosa fare, prese una tanica di carburante ed annaffiò la carta inutile che ingombrava la stanza, poi con un fiammifero emulò Guy Montag: appiccò il fuoco in quel cimitero di brutti ricordi e di occasioni perse. Osservando il fuoco, mentre lingue di calore gli sferzavano il volto, decise di non scrivere più nulla, perché comprese che le persone con cui parlava non erano soltanto bambole, ma erano invece erano ricche di sfaccettature che deviavano senza possibilità di previsione il discorso.
Imparò che sono proprio le sfaccettature ad infondere gioia e naturalezza ad ogni discussione, e che improvvisare porta a risultati più soddisfacenti. I lunghi monologhi appartengono solo ai film, e solo in quelli funzionano. Per la vita vera ci vuole pratica, che consiste in calci e pugni morali, che in fin dei conti fanno bene all’anima. Non è un percorso facile, soprattutto per chi è stato sempre di poche parole e con un certo timore di dire la sua, però fa parte del processo di crescita, e Dante, lui come gli altri, è stato costretto ad intraprendere.