Qualche tempo fa sono stato all’ultima data dei Jova Beach Party. Non apprezzo moltissimo la musica di Jovanotti, ma non è che mi faccia schifo: semplicemente è un artista che non ascolto. Tuttavia, grazie anche ai consigli di chi c’era già stato, ho accettato di andare, ad un prezzo esorbitante per un concerto in spiaggia, ma questo è un altro discorso. Tutto sommato non è andata così male: è sorprendente come Jovanotti, a cinquant’anni suonati, abbia ancora così tanta energia e come sappia tenere il palco. Certo, il live era preregistrato e non stava mixando veramente, ma la scelta musicale era davvero valida, sempre nel contesto di un concerto in spiaggia.
Non conoscendo le sue canzoni ho potuto cantare veramente poco, ma ho avuto molto più tempo per pensare di quanto desiderassi. In questi strani momenti di riflessione ho concluso un po’ di cose riguardo la mia situazione. Queste, ed un pensiero che fino ad allora non ero mai riuscito ad afferrare: il perché la musica pop è così diffusa.
A volte, ascoltando musica, ci sembra che la canzone stia parlando di noi. Solitamente non ascolto pop, la cosa che si avvicina di più è l’indie italiano e i cari vecchi cantautori. Tuttavia, ascoltando certi brani del Jova, sembrava stesse parlando proprio di me, anche se non ero così sicuro che non mi conoscesse. E qui è arrivata l’illuminazione: le canzoni pop sono così diffuse perché sono talmente generaliste che si possono adattare a qualsiasi storia. Le sentiamo come le “nostre” canzoni, scritte appositamente per noi, e più le ascoltiamo più ci convinciamo che sia proprio così, distorcendo il significato originale, come quelli che pensano che Wish you were here sia una canzone d’amore.
Nelle tre ore buone di concerto sono caduto anch’io in questa sporca trappola, illudendomi che certi brani facessero proprio al caso mio. Ovviamente non è vero, però a volte è bello immaginare che ci sia qualcuno che condivide i tuoi stessi problemi e le tue stesse paure. Quindi ho scelto tre brani che ho sentito come miei, per un motivo magari profondamente diverso da quello che il buon Lorenzo intendeva.
Sebbene abbia perso troppo tempo a dare un significato alle parole del testo, parlare di fiducia è sempre una cosa che mi affascina e mi spaventa allo stesso tempo. Mi affascina perché fidarsi di una persona è mettere nelle sue mani qualsiasi cosa per la quale hai combattuto fino a quel giorno, sapendo che la manterrà nella stessa condizione, se non persino migliorata. Mi spaventa invece perché se penso a quante persone potrei dare la mia incondizionata fiducia, mi accorgo che i nomi sono veramente pochi. Certo, esistono livelli diversi di fiducia, ma nonostante ciò ho sempre avuto problemi a fidarmi delle persone: sono figlio della mentalità che l’unico modo per fare le cose fatte bene sia farle da soli, e questa cosa mi ha impedito di costruire dei rapporti di fiducia reciproci che da ragazzini sono fondamentali. Però sento che le cose stanno cambiando, soprattutto da sei mesi a questa parte, in cui mi sono sforzato ad affidare il mio lavoro, risultato di giorni e giorni di sudore, in custodia ad altre persone. Fino ad oggi la mia fiducia è stata sempre ripagata con ottimi risultati, magari pian piano il muro di diffidenza verso gli altri che negli anni mi sono costruito crollerà. Speriamo bene.
Una cosa di cui non penso di aver mai parlato, soprattutto perché non capisco se sia una sega mentale mia o una cosa seria, è la paura della morte. Paura non tanto dell’attimo in sé: basta uno scalino non visto, una buca sull’asfalto, un hamburger di troppo. Ma anche se fosse una lunga malattia, ho paura di quello che rimarrà di me, ho paura di venire dimenticato. Non dai miei cari, se mi dimenticano pure loro vuol dire che sono stato veramente un infame in vita, e un po’ me lo merito. Ho paura che al di fuori della cerchia di parenti ed amici riuniti attorno al mio feretro non ci sia nessun altro che sappia cosa abbia fatto della mia vita. Non sto cercando la fama delle rockstar, non voglio una marea di persone a piangere sulla mia tomba, vorrei solo che il mio lavoro venisse riconosciuto e apprezzato anche dopo la mia dipartita. Pur pensandoci da lungo tempo, non riesco a dare una dimensione di quanto impegno bisogna dedicare per raggiungere l’obiettivo, sicuramente sarà un percorso lungo ed impervio, nell’ordine di grandezza delle decine di anni. Nonostante ciò, se riesco a mantenere questa determinazione, magari punzecchiandola con la paura di cui vi ho parlato, con un paio di botte di culo forse ce la farò. Speriamo bene, parte seconda.
Dopo la fine di BigRock sto aspettando anch’io l’inizio della nuova era. Al momento mi trovo in una specie di limbo, un luogo ameno dove posso esprimermi dove credo. L’unico mio timore è la solitudine: ho sempre pensato di essere un solitario, però era dopo era è stato sempre più difficile lasciare indietro i luoghi e le persone per ricominciare. E restare solo, circondato da persone con cui ho passato troppo poco tempo per conoscerle bene, un po’ mi fa paura. Ma non è una cosa da attacchi di panico, è più un’ansia diffusa, di quelle che ti pesano sullo stomaco nei momenti in cui ci si riflette. Quindi la fregatura di tutto ciò è questa: per quanto ora mi trovi in un posto e in una situazione felice e familiare, dovrà durare meno possibile. Dovrò ripartire dal basso, conoscere nuovi luoghi e nuove persone, per colmare in qualche modo il buco creato dalle esperienze precedenti che mi sono lasciato alle spalle. È un salto nel vuoto, mi ha fatto paura anche le altre volte: il nuovo lavoro in Crispy, l’arrivo a Milano, il primo giorno a BigRock. Però tutti questi eventi sono come un lancio con il paracadute: il momento di paura è appena prima di staccarsi dall’aereo, tutto il resto è esperienza, quindi mi preoccupano solo fino ad un certo punto. La cosa che mi sorprende è che ad ogni salto diventa sempre più facile fare amicizia, stringere nuovi rapporti. Forse questo significa crescere, probabilmente con dieci anni di ritardo, ma meglio tardi che mai. Ho grandi aspettative per i giorni che verranno, tutto è caricato sulle mie spalle. Quindi è arrivato il momento di pedalare, gambe in spalla e si va. Speriamo bene, parte terza.
Forse è proprio questo il motivo per cui non ascolto musica pop: mi porta a pensare a stronzate che in qualche maniera parlano di me. O forse perché mi piace fare l’alternativo, quello a cui non piace il prodotto facile e generalista. In ogni caso è spaventoso come la musica pop ti si avvolga addosso. È stata una delle più grandi scoperte dell’anno, dopo il fatto che il sogno romantico è una stronzata e le panelle siciliane, non necessariamente in quest’ordine. Manca ormai poco alla conclusione di un altro anno, probabilmente l’anno più memorabile della mia vita, quello che mi ha segnato più in profondità e mi ha insegnato di più. Vedremo l’anno prossimo quali altre canzoni mi si appiccicheranno addosso.